La medicina di genere consiste nello studio delle influenze sociali e biologiche in grado di influenzare i percorsi di salute e l’accesso alle cure che uomini e donne affrontano nell’arco della propria esistenza. La Sanità non si sottrae a un approccio discriminatorio che per secoli ha considerato neutrale la sperimentazione, la ricerca e i rimedi.
Giovedì scorso ho partecipato ad un’audizione di approfondimento sulle patologie di genere specifiche indetta dalla Commissione per la Parità e per i diritti delle persone in congiunta con la Commissione Politiche per la salute e politiche sociali della Regione Emilia Romagna. Un momento necessario per ripensare percorsi di salute più equi e sensibili al genere, ma anche per ascoltare i rappresentanti di associazioni di pazienti affette da endometriosi e fibromialgia. Nel 2011 in Emilia Romagna è stata istituita la Commissione per la parità tra donne e uomini, organismo permanente con poteri legislativi, composto da consigliere e consiglieri eletti. Ad oggi una rara esperienza riscontrabile nelle regioni italiane.
È sempre più frequente la tendenza a far sedere agli stessi tavoli istituzionali coloro che si occupano di endometriosi, fibromialgia e vulvodinia. Perdonate la nota personale, ma non mi trovo completamente d’accordo con questo modus operandi, e nelle prossime righe vi racconterò perchè credo che sia piuttosto nella medicina di genere che dovremmo ricercare elementi di congiunzione.
Il timore è che unire nella legislazione i percorsi destinati a malattie così diverse per sintomi, esigenze e trattamenti possa creare un’ulteriore dispersione di risorse e una perdita di efficacia dei percorsi di diagnosi. Più che ambire a parificare i percorsi di malattie così distanti, forse sarebbe saggio puntare ad implementare il Piano per l’applicazione e la diffusione della Medicina di Genere, previsto dall’articolo 3 della Legge 3/2018. È nella medicina di genere che troviamo la chiave di lettura più immediata ed equa per affrontare il ritardo diagnostico, la formazione medica e in generale l’approccio androcentrico alla salute che riguarda da vicino le malattie di genere.
In Emilia Romagna l’inserimento della medicina di genere nella Legge quadro regionale per la parità e contro le discriminazioni di genere (art. 10 L.R. 6/2014), fortemente sostenuta dalla Consigliera Roberta Mori, partendo dal principio della cura personalizzata e appropriata, ha investito la Sanità del compito di un aggiornamento equity and gender oriented. Formazione professionale permanente del personale sociosanitario, campagne di comunicazione e informazione corretta ai cittadini, promozione della ricerca scientifica e di nuovi percorsi di prevenzione, parità di trattamento e accesso secondo le specificità di genere, sono tutti obiettivi e azioni concrete previste dalla Legge per la Parità e a cui la Regione Emilia-Romagna deve adeguare la propria organizzazione socio-sanitaria e i propri documenti programmatici.
Con la parola “sesso” ci si riferisce ad un concetto biologico, che riguarda esclusivamente l’anatomia di una persona, mentre il concetto di genere indica il sistema socialmente costruito intorno a quella stessa identità. Entrambi gli aspetti hanno una rilevanza per la salute, e si ripercuotono sull’accesso alla cura e sull’assistenza che uomini e donne ricevono in modo differente. L’OMS definisce la medicina di genere come lo studio delle influenze che possono essere esercitate dalle differenze biologiche (quelle definite dal sesso) e socio-economiche e culturali (quelle collegate al genere).
Già da prima che la pandemia andasse a peggiorare le cose, tra le differenze di genere che hanno un’influenza anche sulla salute, ci sono fattori ambientali, sociali, culturali e relazionali. Stereotipi, pregiudizi, discriminazioni, ruoli sociali, la maggiore esposizione alla povertà e il salario mediamente inferiore percepito dalle donne sono solo alcuni degli esempi che possono contribuire ad un accesso diseguale alle risorse sanitarie. Un fenomeno che si traduce in rischi per la salute, e in disparità di diagnosi e trattamento tra uomini e donne.
Un Rapporto sulla parità di genere nella salute mentale e nella ricerca clinica spiega, redatto dal parlamento Europeo nel 2017 rilevava come le malattie cardiache siano la principale causa di morte tra le donne, ma che i sintomi di un attacco cardiaco rispetto a quelli di un uomo sono diversi, con conseguenze sulla diagnosi. Inoltre il documento citava il caso dell’endometriosi come esempio di discriminazione nella ricerca sulle patologie femminili e nel relativo trattamento.
Nell’endometriosi, studi di genere identificano nel tabù delle mestruazioni, una delle possibili concause del ritardo diagnostico (7-10 anni), e quindi della progressione dei sintomi. La normalizzazione del dolore femminile, cioè la convinzione sociale che il dolore nella donna sia una condizione non patologica, unita alla difficoltà di parlare di problemi mestruali, può creare uno stigma in grado di interferire sulla diagnosi precoce.
Fin dalle proprie origini, la medicina, la sperimentazione farmacologica e la ricerca scientifica, hanno avuto un’impostazione androcentrica, cioè riferita alla pratica, più o meno consapevole, di porre un punto di vista maschile al centro della propria visione, relegando la salute femminile ai soli aspetti correlati alla sfera riproduttiva.
La letteratura scientifica è ancora carente di studi sul dolore nella donna, anche a causa delle difficoltà che riguardano le variabili del sesso femminile come i cambiamenti ormonali nell’età riproduttiva, la gravidanza e la menopausa. Nelle pubblicazioni scientifiche il sesso non viene sempre riportato e, per questa ragione, anche se il sesso biologico dovesse avere qualche rilevanza nella ricerca l’assenza di dati comparabili potrebbe sconsigliarne l’impiego.
Nonostante costituiscano oltre la metà della popolazione europea, le donne sono sottorappresentate nella ricerca biomedica, che continua a fondarsi sul tacito presupposto che donne e uomini siano fisiologicamente simili in tutto tranne che nei sistemi riproduttivi, trascurando differenze biologiche, sociali e di genere che influenzano in modo significativo la salute.
Un esempio in tal senso è quello del dolore. Nelle donne il dolore è più frequente e più intenso e gli antidolorifici risultano meno efficaci sulle donne che sugli uomini, dove sembra che il testosterone abbia un’azione protettiva sul dolore. Esiste un’associazione tra la diminuzione della concentrazione di androgeni (ormoni maschili) e dolore cronico, mentre gli ormoni estrogeni (femminili) sono in grado di aumentare la percezione del dolore nelle donne. Sono note poi le variazioni della sintomatologia durante il ciclo mestruale, dove la risposta dolorosa varia in relazione alle fasi del ciclo stesso.
In molti casi le strategie preventive e curative sono applicate alle donne dopo essere state testate esclusivamente su uomini, potenzialmente con effetti limitati se non addirittura controproducenti. La giornalista britannica Caroline Perez, ha indagato nel proprio libri quanto i percorsi di diagnosi e cura siano ancora pensati su corpi maschili. Un esempio riguarda il fenomeno delle risposte sesso specifiche ai vaccini: le donne tendono a sviluppare reazioni avverse più frequenti, un’intuizione che nel 2014 suggerì l’idea di produrre una versione maschile e una femminile del vaccino antinfluenzale.
In particolare un enorme vuoto di dati di genere interessa le donne in gravidanza: per ragioni comprensibili le gravide non prendono parte facilmente alla ricerca biomedica. Tuttavia una raccolta e un’analisi sistematica su dati ed esiti di patologie che colpiscono queste donne restituirebbe almeno una parte di quelle indicazioni che oggi sembrano essere ignorate.
Anche il tema della pandemia non è esente da un approccio di genere. La rivista scientifica Nature lo scorso anno, ha documentato marcate differenze negli effetti della malattia da Covid-19 tra uomini e donne. Dati che potrebbero giustificare una diversificazione di trattamento sulla base del sesso. Alcuni studi hanno riportato come poche ricerche diano conto di dati accurati sulle differenze di genere, ad esempio sugli eventi avversi nei generi. Sul numero di maggio della rivista Panorama è stato menzionato uno studio italiano sulle alterazioni del ciclo mestruale dopo la vaccinazione anti-COVID 19.
Sono state escluse da questo studio le donne con patologie ginecologiche e non, sottoposte a trattamenti ormonali e non, in perimenopausa o menopausa, nonché quelle che hanno avuto cicli mestruali irregolari nei 12 mesi prima della somministrazione del vaccino. Secondo questa analisi, circa il 50-60% delle donne in età riproduttiva che hanno ricevuto la prima dose del vaccino COVID-19 hanno riportato irregolarità del ciclo mestruale, indipendentemente dal tipo di vaccino somministrato. Il verificarsi di irregolarità mestruali sembra essere leggermente superiore (60-70%) dopo la seconda dose. È stato riscontrato che le irregolarità mestruali dopo la prima e la seconda dose di vaccino si sono risolte in circa la metà dei casi entro due mesi. Sulla base di questi risultati, il gruppo di ricerca ha suggerito di considerare questi elementi durante il counseling delle donne che ricevono il vaccino COVID-19, informandole del potenziale verificarsi di irregolarità temporanee e autolimitanti del ciclo mestruale nei mesi successivi.
Un altro studio italiano pubblicato a Febbraio, ha invece mostrato come in Italia i numeri di infezioni da SARS-CoV-2 siano simili nelle donne e negli uomini, ma con differenze nell’esposizione e nelle conseguenze tra i sessi. In particolare, il tasso di mortalità oltre i 50 anni di età è significativamente più alto negli uomini rispetto alle donne, una differenza che aumenta con l’avanzare dell’età. Questi dati confermano l’importanza dell’integrazione di un’analisi sesso/genere negli studi futuri, per consentire misure efficaci di salute pubblica e soluzioni specifiche per genere.
Limitare l’approccio di genere ad un’ottica esclusivamente femminile sarebbe un errore. I modelli di imitazione consolidati sulla mascolinità che la società trasmette da subito ai bambini di sesso maschile, scoraggiano l’accesso alle cure con conseguenze sulla salute mentale e fisica. Inoltre, un altro punto a sfavore degli uomini sarebbe lo scarso supporto sociale ed emotivo di amici e familiari, di cui dispongono maggiormente le donne.
Gli esperti sostengono che sia una tendenza maschile diffusa quella di evitare visite urologiche e screening, per affidarsi a strategie di autogestione davanti ai primi sintomi, favorendo ritardi diagnostici e peggioramenti. Ad alimentare questi tabù ci sono anche fattori come l’accesso alle informazioni. La consapevolezza in materia di salute maschile è meno diffusa e scarsamente promossa.
Un esempio proviene dalla pratica dell’educazione del pavimento pelvico: oggi sappiamo che, anche nella prevenzione maschile, è da una buona salute del pavimento pelvico che dipende lo sviluppo di patologie diffuse come prostatiti, pubalgie e neuropatie del pudendo.
Vi è poi un considerevole dibattito sulla percentuale dei disturbi della salute mentale effettivamente presenti nella popolazione maschile, e sulla possibilità che ci sia una sottostima causata da un minor numero di diagnosi. Uno studio britannico riporta come gli uomini ricevano meno diagnosi rispetto alle donne perchè meno propensi a chiedere aiuto per questioni che riguardano il benessere psicologico. Le statistiche indicano come il disagio emotivo maschile possa emergere in modalità diverse da quelle che spingono un individuo di sesso femminile a cercare un supporto psicologico. Gli uomini pur riconoscendo i segnali di un decadimento del proprio benessere mentale sono meno disposti a chiedere aiuto.
Le differenze di genere sono presenti nei tassi di frequenza di disturbi mentali comuni come la depressione e l’ansia. Le donne sembrano soffrire maggiormente di ansia e depressione, non è chiaro però se questo dato sia influenzato anche dal fenomeno della sovramedicalizzazione o del sovratrattamento, che si possono verificare quando le persone ricevono trattamenti per malattie o disturbi che ancora non hanno sviluppato. Indagini elaborate dalla Fondazione Onda testimoniano come esista una tendenza a prescrivere oppioidi e sedativi più frequentemente e in dosi maggiori alle donne, piuttosto che negli uomini, anche a fronte di sintomi fisici dolorosi e non psichici.
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