Maura è una donna affetta da endometriosi, fibromialgia e tiroide di Hashimoto, una malattia cronica autoimmune che causa l’infiammazione della tiroide interferendo con la capacità di produrre ormoni, causando sintomi che compromettono la qualità di vita. Le malattie autoimmuni interessano l’8% della popolazione, ma le donne hanno probabilità 3 volte maggiori di esserne affette: di conseguenza l’80% dei malati è donna, spiega nel suo libro Caroline Perez, giornalista e attivista britannica.

Non sappiamo di preciso perché questo accada, ma alcuni ricercatori ipotizzano che abbia a che vedere con la funzione riproduttiva: le femmine della specie umana avrebbero «sviluppato una risposta immunitaria particolarmente rapida ed efficace per meglio proteggere feti e neonati», solo che a volte quel sistema reagisce in modo eccessivo e attacca l’organismo.

Con la voce tremante Maura mi racconta che la tiroidite di Hashimoto, a differenza di Endometriosi e Fibromialgia, le da diritto all’esenzione ticket. Nel mese di Ottobre Maura fa la prima richiesta in Farmacia per prenotare la visita di controllo che lo specialista le ha consigliato. La Farmacia rimbalza a lei l’onere di chiamare i CUP, perchè al momento non c’è alcun posto disponibile. Ma le cose non migliorano e chiamando scopre ancora una volta che non c’è un posto per prenotare la sua visita esente ticket, per molto tempo.

“Perché darmi l’esenzione se poi devo per forza curarmi privatamente? Io ora non sto lavorando e non posso permettermi di pagare per curarmi. Lo stesso mi succede per l’endometriosi e la fibromialgia.”

In questo articolo ho raccolto le testimonianze di donne in età lavorativa, tra i 30 e i 50 anni, che vivono in diverse zone dell’Italia, da Nord a Sud, con l’intento di raccontare le difficoltà delle persone affette da malattie di genere non tutelate e comorbidità, e le conseguenze della pandemia sulla loro capacità di cura. Per comorbidità si intende la presenza concomitante di 2 o più disturbi nella stessa persona, una situazione che nelle donne è molto più frequente di quanto si creda.

I nomi indicati nell’articolo sono nomi di fantasia, scelti per tutelare la riservatezza delle pazienti soprattutto nei luoghi di lavoro.

La pandemia ha esasperato situazioni già esistenti. Oggi è il sistema sanitario stesso che mina l’aderenza terapeutica dei pazienti non-covid. Con aderenza terapeutica ci si riferisce alla misura in cui il comportamento di un paziente corrisponde alle raccomandazioni concordate con un operatore sanitario. Nella pratica rappresenta il grado in cui il paziente, più o meno per propria volontà, è in grado di seguire le indicazioni del medico. La scarsa aderenza alle terapie si traduce in problemi che riguardano la mancata salute e lo spreco di risorse, quindi in recidive, ricoveri impropri e giornate di lavoro perse.

Il XIX Rapporto di Cittadinanzattiva sulle politiche della cronicità ha evidenziato come 1 paziente su 2 dichiari che con la pandemia sono aumentate le criticità nell’accesso alla diagnosi e cura per la propria patologia. I costi privati sono in aumento per 1 paziente su 2 e, 1 su 5 è stato costretto a rinunciare alle cure per motivi economici.

Maura riceve la diagnosi di fibromialgia vicino ai 40 anni, dopo anni di psicofarmaci, quando arriva in un centro specializzato. Mi spiega che la diagnosi risulta liberatoria dopo anni di sofferenza. Un’indagine Onda spiega infatti come ci sia una tendenza a prescrivere farmaci sedativi in quantità maggiore nelle donne che lamentano dolore, piuttosto che farmaci antidolorifici, come invece viene fatto per gli uomini che dichiarano un quadro doloroso. Ancora oggi nella pratica clinica quotidiana in ambito di terapia del dolore si osservano pazienti, soprattutto donne, che giungono con diagnosi di “sindrome ansioso-depressiva” pur lamentando dolore cronico.

Da qualche anno Maura ha pressoché rinunciato a curarsi, non può pagare per farlo ed è sempre più difficile prenotare una visita nel Sistema Sanitario Nazionale pubblico. Dice che dopo tanti anni non riesce più a sopportare di vedersi chiudere le porte davanti al bisogno di cura. Lo trova svilente.

Il 40,5% dei cittadini dichiara che oggi è più difficile effettuare una visita specialistica a causa degli ambulatori chiusi o delle liste di attesa, e lo stesso succede per le prestazioni diagnostiche e i ricoveri (39%).

Chiara nel mese di Agosto è finita 2 volte al Pronto Soccorso a causa dell’endometriosi. Dopo 2 ricoveri il sospetto è che ci possano essere complicanze a livello intestinale. Per questo lo specialista le ha suggerito una risonanza specifica. Purtoppo Chiara mi spiega che i tempi si sono rivelati lunghi fino a 12 mesi di attesa per i centri di diagnostica specializzati. Lo stesso succede a Francesca che per una banale ecografia mi racconta di dover attendere fino a Novembre 2022.

Chiara e Francesca sono lavoratrici precarie. Chiara mi racconta che dovrebbe tagliare su qualche visita che arrivare a fine mese è sempre più difficile, ma non sa cosa scegliere: “Non voglio rinunciare all’osteopata, o allo psicologo o al nutrizionista. Sento che ho bisogno di tutti perché tutti mi aiutano a stare un po’ meglio.”

Anche Linda è affetta da fibromialgia ed endometriosi. Mi spiega che è stanca, che non si sente assistita e soprattutto presa in cura. Linda attende da quasi un anno un intervento per endometriosi e nel frattempo anche la fibromialgia compromette la qualità della sua vita. “Lo stipendio non mi basta per trovare una soluzione. Vengo rimbalzata da uno specialista all’altro ma il dolore continua ad invadere la mia esistenza. Ho bisogno di un approccio multidisciplinare che non posso concedermi. Tra l’affitto e le spese non posso permettermi visite private e i tempi nel pubblico sono lunghi. Inoltre al lavoro sono in periodo di prova e non posso assentarmi nonostante il dolore.”

Un trend confermato anche da alcune recenti indagini che indicano come oltre il 50% delle donne con endometriosi abbia perso in qualche modo la propria capacità di cura dopo la pandemia, di dover procedere privatamente o di non poter sostenere le spese di tutti gli specialisti, oltre che delle terapie.

Studi scientifici suggeriscono che i l’approccio multidisciplinare sia la strada migliore al fine di assicurare alle donne con endometriosi cure coerenti basate sull’evidenza, garantendo eccellenza, continuità ed efficacia. La spesa per la cura non consiste solo nel controllo dal ginecologo esperto in endometriosi, ma riguarda tutti quei professionisti della salute che contribuiscono all’approccio multidisciplinare. Si pensi alla psicoterapia, all’osteopatia, al nutrizionista, ad esempio.

Questo approccio ha molto a che vedere con la prevenzione e la riduzione dell’impiego di farmaci non strettamente necessari (in particolare in campo antalgico, di antinfiammatori e antidolorifici), con effetti positivi sulla riduzione dei costi sanitari, che Federconsumatori ha stimato intorno ai 2 milioni di euro, e sulla salute delle pazienti duramente colpite da un uso massiccio e prolungato di farmaci, e da una spesa a proprio carico che si aggira tra i 500 e i 2000 euro all’anno in media, tra farmaci e diagnostica.

Cittadinanzattiva scrive che i pazienti sostengono abitualmente di tasca propria costi privati necessari alla gestione della patologia: il 45% circa per l’acquisto di parafarmaci ed integratori non rimborsati, oltre il 40% per effettuare visite specialistiche in regime privato o intramurario, il 36% per la prevenzione terziaria (diete, attività fisica, dispositivi), il 33% circa per effettuare esami diagnostici a pagamento. 1 su 2 afferma che i costi sono aumentati rispetto al periodo pre-pandemia e uno su cinque è stato costretto a rinunciare ad alcune cure perché non poteva sostenerne i costi.

Federica invece è affetta da endometriosi, fibromialgia e vulvodinia, oltre ad altri problemi di salute. Ha contratto il Covid nelle prime ondate e si è assentata dal lavoro per diverse settimane, quando non c’era ancora possibilità di infortunio. Il suo contratto nazionale le consente solo 5 giorni di permesso ogni anno, inoltre l’essersi assentata per diverse settimane di malattia dal lavoro ha inciso sull’accumulo complessivo di giorni per malattia del triennio, precludendole la possibilità di altre assenze per ricoveri, interventi o anche per una banale influenza.

“Oltre al danno la beffa, oltre a sostenere i costi per le cure ora ho paura di stare male e dovermi assentare di nuovo.” Mi spiega. Federica come molte pazienti croniche in età lavorativa è costretta ad usare i giorni di ferie per le visite mediche e le cure, dal momento che non è prevista un’esenzione come da legge 104. “Purtroppo con tante malattie croniche tutte insieme non si capisce più dove inizia una e finisce l’altra. Mi sono sentita dire che non c’è il tempo di farmi la diagnosi. Inevitabilmente poi lo sconforto ti prende, perchè laddove non c’è una diagnosi certa si procede per tentativi e i tentativi corrispondono a ulteriori costi per farmaci e visite.”

Si stima che trascorrano in media 4 anni prima che la paziente consulti il medico, e altri 4 per l’identificazione e la conferma della diagnosi, dopo una media di 5 specialisti consultati. Sono numerose le testimonianze di pazienti che raccontano come il proprio dolore sia iniziato tra i banchi di scuola, ma è solo quando la paziente diventa consapevole dell’eccezionalità dei propri sintomi che inizia quello che, spesso, è un lungo calvario per l’ottenimento di una diagnosi.

Federica non ha esenzione, se non quelle stabilite dal codice 063. L‘endometriosi non è una malattia esente ticket, la sola esenzione esistente riguarda le prestazioni del tutto secondarie riconosciute attraverso i Lea nel 2017, che non sono rilevanti nell’economia della salute della paziente perchè le spese quotidiane, i costi essenziali, sono molto diversi.

Inoltre l’endometriosi è presente da tempo nelle tabelle di invalidità INPS ma nessuno ci ha mai più messo mano. Le tabelle sono obsolete, tanto che spesso rimandano alla discrezione della commissione esaminante, e non favoriscono la comprensione del dolore e dell’impatto sulla qualità di vita. Una situazione stagnante aggravata dall’assenza di tutele lavorative per le pazienti, e dalla mancanza di congedi mestruali nel nostro paese. Le pazienti raramente raggiungono il punteggio necessario a vedersi riconosciuta una percentuale significativa di invalidità, continuando a trascinarsi doloranti in luoghi di lavoro non certo a misura a di donna.

Cittadinanzattiva riporta come nello scenario post pandemico quasi un paziente su due (48,8%) abbia avuto difficoltà nell’ottenere il riconoscimento dell’invalidità e handicap, principalmente perché i medici della commissione sottovalutano la patologia perché non la conoscono, e per i tempi eccessivamente lunghi per la visita di accertamento. I pazienti lamentano anche una minor attenzione al dolore collegato alla propria patologia: lo denuncia il 34,5% rispetto al 26,4% dello scorso anno.

Gloria è una paziente con endometriosi, vive in una grande città e ogni giorno è costretta a lunghi tragitti casa-lavoro che inevitabilmente rendono più lungo e stancante il tempo fuori casa. Grazie alla pandemia Gloria ha scoperto il lavoro da casa: “Lavorando da remoto non solo ho ridotto il tempo fuori casa, ma i dolori che mi accompagnavano sono significativamente diminuiti: merito della riduzione dello stress, dell’assenza di pendolarismo e della facilità di potermi alzare dalla sedia ogni volta che ne sento la necessità”.

Gli specialisti le hanno anche fornito una certificazione che attesta come il lavoro agile andrebbe a beneficio della sua salute. Eppure i datori di lavoro di Gloria non ne vogliono sapere: sebbene la sua mansione sarebbe compatibile con un lavoro a distanza non c’è possibilità di mediazione. O così o si cambia posto di lavoro.

Se la tua malattia non prevede per legge una tutela lavorativa significa che non ne hai bisogno. La questione del riconoscimento di una malattia è un concetto che non per forza coincide con la tutela della persona affetta da quella patologia. L’endometriosi è una malattia riconosciuta da anni ormai, ma in assenza di tutele questo non incide sulla qualità di vita delle pazienti.

Anche Lara ha vissuto una situazione analoga: “Ho lasciato il lavoro d’ufficio perchè il pendolarismo e le molte ore seduta non facevano che peggiorare i miei sintomi. Ero sempre piena di dolore. Ora ho aperto una Partita Iva, forse lavoro anche più di prima ma posso gestire meglio i miei ritmi, e i sintomi sono quasi spariti. In questo modo ho dimezzato molte spese e ho una qualità di vita migliore. Non è stato facile decidere di abbandonare un posto a tempo indeterminato dopo tanti anni. Si parla ancora poco dei liberi professionisti e di quanto sia priva di tutele questa condizione. Con il mio regime fiscale non recupero più 1 solo euro di farmaci e visite. Ma vivere con il dolore comprometteva la mia qualità di vita, di coppia e in generale il mio benessere psicofisico.”

Quando si parla di pazienti si tende a dimenticare che dietro queste persone ci sono le vite private di molte donne, che tentano di stare al passo con i ritmi e i dolori dettati dalla malattia. È corretto dare per scontato che le pazienti sacrifichino la vita privata utilizzando il proprio tempo solo per recuperare le forze per andare al lavoro?

Questa perdita della qualità di vita che conseguenze ha nel lungo termine?

Gli studi scientifici rilevano conseguenze molto chiare: riduzione dell’orario lavorativo, perdita del lavoro, ridotta produttività e abbandono del posto di lavoro.

Per ridurre i costi sociali di queste malattie bisognerebbe investire in chiave preventiva, cioè investire oggi perchè non succeda qualcosa domani. Servirebbero politici lungimiranti capaci di un pensiero che va oltre le generazioni, e l’assegnazione dei fondi del PNRR potrebbe rappresentare una prima occasione per ridisegnare la sanità, se solo lo si volesse.

Il quotidiano La Stampa scrive che mancano 48.000 medici e infermieri, 3 per ogni turno, e chi resta lo fa lavorando in condizioni lavorative complesse e faticose. A furia di concentrare il dibattito solo sui vaccini la politica sembra aver dimenticato che la cura dei cittadini esige interventi più ampi, in grado di ripristinare le prestazioni perse, e di far fronte alla cura di tutti i pazienti.

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